Il motivo di questa uscita di Guastafeste non richiede tanti giri di parole: la violenza che si sta abbattendo sul popolo palestinese della striscia di Gaza per mano delle forze sioniste di Israele è uno spettacolo raccapricciante che non lascia spazio dall’indifferenza o al silenzio. Nel corpo della mail trovate due traduzioni di testi (uno del 2023 e uno del 2021) che riflettono sulla resistenza palestinese, in particolare sulla resistenza armata, sul modo in cui viene sovente approcciata in Occidente e sulla sua importanza per la decolonizzazione dei territori palestinesi. Inoltre, ho tentato di compilare una lista non esaustiva (da integrare in future uscite) di risorse sulla questione palestinese, a partire da quelle che sono state fondamentali per me in prima persona per comprendere i punti focali di questa storia.
Guastafeste è una newsletter a cura di Vera Sibilio.
Tra barbari e civilizzati
Chi non si indignerebbe di fronte agli omicidi di Hamas o davanti al diluvio di bombe ordinato dal governo israeliano? Il primo è tacciato di «terrorismo»; il secondo no. Nel corso della storia, tale concetto ha subito notevoli variazioni.
Testo di Alain Gresh per Le Monde Diplomatique
Cosa ci può essere di più devastante per una madre o per un padre se non la perdita di un figlio? Tante speranze andate in fumo, tanti sogni trasformati in incubi, tanti progetti abortiti. È una tragedia incomprensibile per chi non l’ha vissuta e ogni genitore trema all’idea di ricevere una telefonata che l’informi di questo dramma. Tale sciagura può verificarsi come risultato di una malattia, per la quale non si può che incolpare il «destino», o di un incidente stradale, di cui è responsabile l’autista coinvolto. Ma se è la conseguenza di un atto «terroristico» che colpisce una scuola qui, un supermercato lì, i passanti per strada, chi incolpare? Il terrorista, naturalmente: chi altro?
Dunque… è il 4 settembre 1997, via Ben-Yéhouda, nel pieno centro di Gerusalemme. Tre kamikaze di Hamas si fanno saltare in aria uccidendo cinque persone, tra cui una ragazza di quattordici anni, Smadar, uscita di casa per comprare un libro. La ragazza porta un nome prestigioso a Israele. Suo nonno, il generale Mattityahou Peler, fu uno degli artefici della vittoria del giugno 1967, prima di votarsi al pacifismo e divenire uno dei protagonisti delle cosiddette «conversazioni di Parigi», incontri segreti tra i responsabili dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e i sionisti israeliani. Nel 1997, Benjamin Netanyahou è già primo ministro e ha già promesso di distruggere gli accordi di Oslo, firmati nel 1993 – cosa che riuscirà a portare a compimento. Netanyahou conosceva la madre di Smadar, Nourit, ex compagna di scuola e amica d’infanzia. Quando la chiama per offrirle le sue condoglianze, lei gli risponde: «Bibi, ma che hai fatto?», ritenendolo responsabile della morte di sua figlia.[i]
«Per me, non c’è differenza tra il terrorista che ha ucciso mia figlia e il soldato israeliano che, chiusa la viabilità tra i territori, non ha permesso a una palestinese incinta di superare il posto di blocco per raggiungere l’ospedale, facendole dunque perdere il figlio. Sono convinta che se i palestinesi ci trattassero come “noi” li trattiamo, “noi” semineremmo un terrore cento volte più intenso su di loro». Nel suo testo, Nourit conclude definendo Netanyahou un «uomo del passato». Purtroppo si sbagliava: Netanyahou resta ancora oggi il volto della politica israeliana. Malgrado le critiche che lo prendono di mira da mesi a causa del suo progetto di riforma della giustizia, la stragrande maggioranza della società israeliana continua a schierarsi a suo favore, giustificando la politica criminale – secondo il diritto internazionale – che conduce a Gaza. Tra le macerie fumanti della striscia, cresce la prossima generazione di combattenti palestinesi, più determinata della precedente, col cuore pieno di rabbia e di un odio inestinguibile.
L'azione degli squadroni suicidi degli anni ’90 e 2000, come l’assalto del 7 ottobre da parte di Hamas, alleato con altre organizzazioni palestinesi, costituisce un crimine di guerra, così come l’assedio e il bombardamento di Gaza. La situazione attuale solleva nuovamente la questione del terrorismo e della sua definizione. Si tratta di un esercizio laborioso in quanto le formazioni che vengono raggruppate sotto l’appellativo «terrorista» sono di natura eterogenea.[ii] Si può davvero utilizzare la stessa etichetta nel riferirci alle milizie americane di estrema destra, autrici dell’attacco di Oklahoma City del 19 aprile 1995, ad Al-Qaeda, all’Irish Republican Army (IRA) e al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK)? Tacciare un gruppo di terrorismo significa considerarlo come l’incarnazione del Male assoluto con cui ogni compromesso è impossibile e contro il quale l’unica strategia è l’eradicazione per garantire la vittoria del Bene. Tuttavia, la storia ha spesso dimostrato, in Algeria così come in Irlanda, che i «terroristi di ieri» sono i condottieri del domani.
Quando i giornalisti invitano qualcuno a intervenire sui fatti di Gaza e richiedono, prima di tutto, la condanna di Hamas come «organizzazione terrorista» si dimenticano che questa designazione, ratificata principalmente dall’Unione europea e gli Stati Uniti, non è condivisa né dalle Nazioni unite né da numerosi altri stati che invece comunicano con l’organizzazione palestinese. Lo stesso stato di Israele, nel corso negli anni, ha intrattenuto contatti con Hamas e ha autorizzato il Qatar a inviare milioni di dollari a Gaza, sperando così di «comprare» il movimento. Possiamo davvero credere che un partito che ha ricevuto circa il 44% dei voti tra i palestinesi durante le elezioni legislative del 2006 possa essere semplicemente eradicato?
L'inclusione di Hamas sulla liste delle organizzazioni terroriste dell’Unione europea, agli inizi degli anni 2000 e in seguito alla seconda Intifada, ha suscitato numerosi dibattiti. La Francia, convinta che sarebbe stato meglio comunicare col movimento islamista, ha inizialmente optato per inserire sulla lista solo le brigate Izz Al-Din Al-Qassam, così come, in precedenza, le brigate dei Martiri di al-Aqsa furono distinte dal gruppo Fatah, ramo principale dell’OLP. In seguito, Parigi ha ceduto alle pressioni dei suoi alleati ma rifiuta ancora l’inclusione di Hezbollah nella lista, considerando il movimento come partito politico legittimo, presente nel Parlamento libanese, nonché uno dei maggiori attori della politica interna della terra dei cedri.[iii]
Il caso del PKK è emblema delle contraddizioni della politica occidentale. Esso figura sulle liste delle organizzazioni terroriste in Europa e negli Stati Uniti, ed esprimere sostegno verbale al gruppo può risultare in accuse di apologia del terrorismo. Eppure, nel 2014-2015, i paesi occidentali hanno inviato armi al PKK per arrestare l’offensiva dello Stato islamico in Iraq e per difendere la città di Kobane, dimostrando un eroismo che è stato largamente celebrato in tutto il mondo.[iv]
Si può concordare sul fatto che esistano «atti terroristici», cioè quelli che prendono di mira o che colpiscono principalmente i civili. Tale metodo di lotta è stato utilizzato da numerosi movimenti di liberazione, su scala più o meno grande a seconda delle circostanze. Prima di indignarsi, però, è necessario ricordare che questi movimenti si sono trovati a interfacciarsi con armate moderne, dotate di aerei, carri armati, missili: un combattimento ad armi impari. Inoltre, il terrore quotidiano, sovente invisibile ai colonizzatori, ma dalle potenzialità sterminatrici, colpisce da decenni le popolazioni occupate, generando in loro collera, frustrazione, rabbia.
«È facile non notare il terrore», osservava lo scrittore Manès Sperber. «Esso si nasconde dietro l’indifferenza di coloro che non ne vengono colpiti, ovvero la stragrande maggioranza».[v] Sperber parlava del terrore fascista nell’Europa degli anni ’30, ma il terrore coloniale è ancora più invisibilizzato tra i popoli dei paesi colonizzatori, che sistematicamente si sorprendono delle «barbarie» commesse nei loro confronti dai colonizzati.
Storicamente, il terrorismo non ha svolto la stessa funzione in tutti i movimenti di liberazione e alcuni di questi sono riusciti a limitarne l’utilizzo. Il caso sudafricano è esemplare: la sua lotta non si può ridurre, come si crede spesso in Occidente, a un «pacifismo» ben intenzionato. Il Congresso nazionale africano (ANC) ha utilizzato anche mezzi violenti e, talvolta, terroristici. Il panorama entro cui si muoveva la sua lotta ha tuttavia supportato la scelta di una metodologia più moderata: l’ANC possedeva alleati solidi su scala internazionale che lo sostenevano concretamente nel combattimento. Poteva contare sull’aiuto dell’URSS e dei paesi ad essa affiliata, su un movimento coeso, determinato e controcorrente e su un possente movimento di boicottaggio in Occidente, che nessuno ha mai pensato di criminalizzare e che ha scosso l’apartheid e il sostegno al capitalismo sudafricano. Infine, l’intervento militare cubano in Angola, e soprattutto la battaglia di Cuito Cuanavale nel gennaio 1988, quando l’armata di Fidel Castro diede il colpo mortale alla macchina da guerra di Pretoria, costituì, secondo Nelson Mandela, «un punto di svolta nella liberazione del nostro continente e del mio popolo».[vi] In questo contesto, è stato possibile evitare il ricorso al terrorismo.[vii] Oggi, invece, i Palestinesi sono abbandonati a se stessi (ripudiati anche da diversi governi arabi), mentre Israele gode del sostegno incondizionato dell’Occidente, la cui alleanza non traballa nemmeno con l’avvento al potere a Tel Aviv dei ministri fascisti, «suprematisti ebrei».[viii]
Per comprendere i dilemmi specifici dell’OLP e delle sue componenti, bisogna ritornare sui passi della lotta palestinese successiva all’occupazione del 1967. Dopo un periodo di euforia segnato dall’incremento dell’azione dei fedayin (combattenti) palestinesi, questi ultimi furono espulsi verso la Giordania nel 1970-1971,[ix] mentre si consolidava il controllo israeliano sui territori occupati. In quel momento, l’esistenza stessa della lotta palestinese era in pericolo e con essa anche la speranza della liberazione. Si acuirono dunque le azioni violente, anche in una dimensione transnazionale, e si costituì l’Organizzazione del Settembre nero, che si distinse per la cattura di ostaggi tra la delegazione israeliana ai giochi olimpici di Monaco del 1972. Come spiegato da Abou Iyad, ex numero due dell’OLP, «l’organizzazione ha agito in ausilio alla resistenza in un momento in cui quest’ultima non poteva adempiere ai suoi compiti militari e politici. (…) I suoi membri [dell’organizzazione, NdT] hanno saputo tradurre in azione i radicati sentimenti di frustrazione e indignazione che animano il popolo palestinese di fronte agli omicidi in Giordania e alla complicità che li ha resi possibili».[x] Contemporaneamente, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), guidato dal palestinese cristiano Georges Habash, intensificava i dirottamenti aerei e organizzò, con l’Armata rossa giapponese, l’attacco all’aeroporto di Lod (Tel Aviv), il 30 maggio 1972.
Cosa portò, dunque, l’OLP a fermare le sue «operazioni esterne»? Innanzitutto, un crescente riconoscimento internazionale da parte di paesi, soprattutto, socialisti, che hanno permesso all’OLP di avere maggiore legittimità a livello internazionale, ottenendo anche l’invito di Yasser Arafat all’Organizzazione delle Nazioni unite (ONU) nel 1974. L’OLP entrò quindi a far parte del dialogo diplomatico, con numerose visite in Europa (tra cui Parigi nel 1974). La Francia, che ovviamente condannava il terrorismo, ebbe un ruolo fondamentale nel convincere i suoi alleati che la chiave della risoluzione del conflitto fosse da rintracciare nella fine dell’occupazione israeliana e che dovesse passare necessariamente per il riconoscimento del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, oltre che attraverso i negoziati con l’OLP (dichiarazione europea di Venezia del 1980). All’epoca, il primo ministro israeliano, Menahem Begin, accusò l’Europa di voler forzare Israele a negoziare con Fatah, i cui «testi risuonano come il Mein Kampf di Hitler». Un paragone che viene ripreso da Netanyahou per stigmatizzare Hamas. La mossa europea aprì una finestra diplomatica e avviò un processo politico. Per un breve istante, i palestinesi poterono sperare di concretizzare il proprio sogno di uno stato, scommettendo sulla pace.
Non si tratta, ora, di ripetere la storia del fallimento del processo di Oslo, ma è inconfutabile che giochi un ruolo chiave nella vittoria elettorale di Hamas nel 2006. Ciò che continua e continuerà ad alimentare la violenza nel corso dei decenni è la situazione materiale dei palestinesi, l’estensione della loro colonizzazione, la repressione di tutte le loro attività politiche, l’imprigionamento di massa e la violazione sistematica del diritto internazionale. In Cisgiordania, dove l’attività di Hamas è praticamente inesistente, l’azione israeliana è davvero più «moderata»?
Israele mette in pratica la massima di un esperto tedesco della fine del XIX secolo: «Il diritto internazionale non è altro che parole al vento se si vogliono applicare i suoi principi anche ai popoli barbari. Per punire una tribù ne*ra bisogna bruciarne i villaggi; non si può realizzare nulla se non si fanno esempi di questo genere».[xi] Tale terrore, spesso invisibile all’Occidente, che non batte ciglio se non quando muoiono degli israeliani, è il pane quotidiano del popolo palestinese, inscritto nella loro carne. Alcuni video circolati dopo il 7 ottobre mostrano combattenti che gridano: «Questo è per mio figlio! [che voi avete ammazzato]», «Questo è per mio padre! [che voi avete ammazzato]».[xii]
«Centotré europei sono stati assassinati, numerose donne, una di 84 anni, sono state stuprate. I cadaveri, nella maggior parte dei casi sono stati mutilati. Le aree genitali tagliate e posizionate in bocca, i seni delle donne strappati. I rivoltosi hanno attaccato i cadaveri pugnalandoli». Un’inchiesta francese descriveva così gli eventi dell’8 maggio 1945 nell’est dell’Algeria. A Setif, durante una manifestazione indipendentista, un giovane manifestante fu ucciso dalla polizia, innescando rivolte e massacri. Un libro eccezionale di Mehana Amrani[xiii] ripercorre le reazioni francesi a tali eventi che anticiparono la rivolta del 1954.[xiv]
Come spiegare tale «barbarie» perpetrata dai colonizzati? Uno studioso dell’epoca scriveva che «il richiamo alla violenza fa emergere dalle montagne una sorta di genio del male, un Calibano berbero, selvaggio e crudele, i cui movimenti non possono essere fermati se non da una forza più grande della sua. Questa è la spiegazione storica e sociale degli eventi di Setif il giorno della celebrazione della vittoria». Il quotidiano Le Monde non è stato da meno, sottolineando che «i disordini sono sorti nelle regioni in cui le istituzioni francesi (politiche, scolastiche, sociali) sono meno sviluppate». Sottinteso, una colonizzazione intensificata permetterà a tali popoli di evadere la loro «barbarie». E se fosse, al contrario, che è proprio la colonizzazione ad averli indotti verso la violenza?
Ci sono voluti decenni prima che venisse riconosciuta la durezza della repressione contro le popolazioni cosiddette «indigene» in seguito alle rivolte di Setif del 1945: decine di migliaia di morti, da tempo sepolti con il beneplacito di coloro che non volevano vedere i «massacri civilizzati» commessi dalla Francia.
Alain Gresh è direttore del giornale online Orient XXI e coautore (con Hélène Aldguere) di Un chant d’amour. Israël-Palestine, une histoire française, Libertalia, Montreuil 2013.
[i] Nourit Peled-Elhanan, «Bibi qu’as-tu fait?», Le Monde diplomatique, ottobre 1997.
[ii] Dominique Vidal, «Vous avez dit terrorisme?», Manière de voir, n. 140, aprile 2015.
[iii] Nathalie Janne d’Othée, «Liste des organisations terroristes. Quand l’Union européenne s’emmêle», Orient XXI, 10 gennaio 2022.
[iv] Dora Serwud, «Les héros de Kobané», Manière de voir, n. 169, «1920-2020, le combat kurde», febbraio-marzo 2020.
[v] Manès Sperber, Et le buisson devint cendre, Odile Jacob, Parigi 1990.
[vi] «L’Évangile selon Mandela», Le Monde diplomatique, luglio 2010.
[vii] Ciononostante, gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Sud Africa identificavano l’ANC come organizzazione terrorista. Lo stesso Mandela è stato presente sulla terrorist watch-list americana fino alla metà degli anni 2000 [NdT].
[viii] «Israël, le coup d’État identitaire», Le Monde diplomatique, febbraio 2023.
[ix] «Mémoire d’un septembre noir», Le Monde diplomatique, settembre 2020.
[x] Abou Iyad, Palestinien sans patrie (entretiens avec Éric Rouleau), Fayolle, Paris 1978.
[xi] Sven Lindqvist, Exterminez toutes ces brutes !, Le Serpent à plumes, Paris 1999.
[xii] Ramzy Baroud, «A day to remember: How “Al-Quds Flood” altered the relationship between Palestine and Israel forever», The Palestine Chronicle, 10 ottobre 2023.
[xiii] Mehana Amrani, Le 8 Mai 1945 en Algérie. Les discours français sur les massacres de Sétif, Kherrata et Guelma, L’Harmattan, Parigi 2010.
[xiv] Mohammed Harbi, «La guerre d’Algérie a commencé à Sétif», Le Monde diplomatique, maggio 2005.
L’inalienabile diritto alla resistenza palestinese
«Abbiamo ben presenti tutte le sciagure, le ingiustizie subite dal nostro popolo, le condizioni in cui ha vissuto, la freddezza con cui il mondo guarda alla nostra causa; non vogliamo lasciarci abbattere da ciò. Ci difenderemo e difenderemo la nostra rivoluzione in ogni modo e con ogni mezzo possibile».
George Habash (1926-2008)
«Colui che combatte per la libertà impara con le dure che è l’oppressore a definire la natura della lotta. L’oppresso, spesso, è lasciato senza altra scelta che fruire degli stessi metodi del suo oppressore».
Nelson Mandela (1918-2013)
Testo di Louis Allday per Ebb Magazine [articolo del 2021]
Nel dicembre 1982, dopo sei mesi dalla devastante invasione del Libano da parte di Israele, l’Assemblea generale delle Nazioni unite (ONU) approva la risoluzione A/RES/37/43 riguardo «l’importanza della realizzazione universale del diritto di autodeterminazione dei popoli». Senza alcuna riserva, essa supporta il «diritto inalienabile» dei palestinesi alla «autodeterminazione, indipendenza nazionale, integrità territoriale, unità nazionale e sovranità senza interferenze esterne». Sottolinea, poi, la legittimità della lotta del popolo palestinese per ottenere tali diritti «attraverso tutti i mezzi disponibili, inclusa la lotta armata». Inoltre, condanna fortemente le «attività espansioniste condotte nel Medio Oriente» da Israele e il suo «bombardamento continuo dei civili palestinesi»; entrambi per l’ONU «costituiscono un importante ostacolo all’attuazione dell’autodeterminazione e dell’indipendenza del popolo palestinese». Nelle quattro decadi successive, la violenza israeliana contro i palestinesi e la colonizzazione della loro terra non si è interrotta. Ancora oggi, in tutta la Palestina storica, dalla striscia di Gaza fino a Sheikh Jarrah, la popolazione palestinese è soggetta a occupazione, a un asfissiante monitoraggio su qualsiasi attività, oltre che alla violenza sadica e ingiustificata dello stato sionista.
Oltre al supporto dell’ONU, è anche il diritto internazionale a sancire la legittimità della resistenza palestinese all’occupazione. La Quarta Convenzione di Ginevra stabilisce che una potenza occupante deve proteggere lo «status quo, i diritti umani e le prospettive per l’autodeterminazione delle popolazioni occupate». Come Richard Falk (esperto di diritto internazionale e Special Rapporteur per i diritti umani dell’ONU nei territori occupati della Palestina) ha spiegato, il rifiuto esplicito da parte di Israele di accettare questo quadro legale costituisce una fondamentale negazione del diritto dei palestinesi ad autodeterminarsi e genera direttamente il loro diritto alla resistenza, legalmente riconosciuto. L’occupazione del territorio della Palestina e il flagrante disprezzo israeliano per il diritto internazionale espletato nella costruzione di insediamenti illegali e altre violazioni su base quotidiana si è dispiegato senza sosta da quando Falk si è pronunciato sulla situazione, durante l’Intifada di al-Aqsa. Anzi, l’occupazione non ha fatto altro che mettere radici sempre più profonde, grazie anche alla collaborazione del comprador, l’Autorità palestinese (PA).
Inoltre, a prescindere da quanto codificato dal diritto internazionale, il popolo palestinese possiede un fondamentale diritto a livello morale nel resistere il proprio processo di colonizzazione e oppressione, anche attraverso la lotta armata. Questo diritto deve essere riconosciuto e condiviso. La sofferenza inter-generazionale dei palestinesi, il cui esempio più lampante è rappresentato dall’ininterrotto assedio e bombardamento di Gaza, è inequivocabilmente crudele. Essa ha una causa centrale: Israele e la belligeranza, l’espansionismo e il razzismo inerenti all’ideologia che sostiene lo stato, il sionismo. Al contrario di quanto si potrebbe credere dagli aggiornamenti dei media occidentali, che dipingono sistematicamente gli atti israeliani come «risposte», è invece l’azione palestinese ad essere fondamentalmente «reattiva» di natura. Ciò si spiega col fatto che la violenza che Israele infligge sui palestinesi è perpetua e strutturale e dunque precede qualsiasi tipo di opposizione ad essa. «Nel costituirsi di una relazione di oppressione, la violenza è già iniziata», dice Paulo Freire: «gli oppressi non hanno mai nella storia dato inizio alla violenza». In Palestina, come ha scritto recentemente Ali Abunimah, «la causa di tutta la violenza politica è la colonizzazione sionista».
Dato il diritto morale e legale dei palestinesi di perseguire la resistenza armata, il supporto a quest’ultima dovrebbe essere inequivocabilmente diffuso tra i sostenitori della causa di questo popolo. Eppure in Occidente un tale parere è espresso raramente, anche tra coloro che proclamano ad alta voce la propria solidarietà con la Palestina. Al contrario, atti di resistenza armata da parte del popolo palestinese, come ad esempio il lancio di missili da Gaza, vengono condannati dai sostenitori di facciata come parte del problema: respinti con condiscendenza in quanto futili o controproducenti, indicati come crimine di guerra o «atrocità inimmaginabili», comparati alla routine israeliana della punizione collettiva, della tortura, incarcerazione, bombardamento e assassinio dei palestinesi. Questa solidarietà, come avanzato da Bikrum Gill, si innesta sulla «base della circoscrizione dei palestinesi tra gli esseri che sono intrinsecamente non-sovrani, che possono essere riconosciuti solo come oggetti dipendenti, sia dalla violenza coloniale israeliana sia dai protettori imperialisti bianchi - totalmente privi di potere».
Starsene seduti comodi e al sicuro in Occidente e condannare la resistenza armata scelta dal popolo palestinese, intrapresa correndo anche grandi rischi per la propria vita, significa esprimere una posizione profondamente sciovinista. Bisogna esplicitarlo: non è responsabilità di coloro che scelgono di essere solidali con i palestinesi da lontano cercare di dettare come dovrebbero condurre la propria lotta anticoloniale. Come sosteneva Frantz Fanon, tale lotta è necessaria perché i palestinesi possano aggrapparsi a un autonomo senso di umanità e di dignità, oltre che raggiungere la liberazione. Coloro che non subiscono gli effetti di una brutale occupazione militare, che non sono dei rifugiati o sfollati perché target di pulizia etnica, non hanno il diritto di giudicare il modo in cui i popoli che sono colonizzati scelgono di affrontare i colonizzatori. Infatti, è futile una solidarietà alla causa palestinese se tale solidarietà si dissipa nel momento in cui i palestinesi non lottano più solo con delle pietre, nel momento in cui non possono più essere descritti come vittime coraggiose, fotogeniche ma impotenti. «Il mondo si aspetta che ci votiamo al sacrificio con educazione, forza di volontà e moderazione, che ci lasciamo assassinare senza sollevare obiezioni?», ha provocatoriamente chiesto Yahya al-Sinwar, leader di Hamas a Gaza. «Non è possibile. No. Abbiamo deciso di difendere il nostro popolo con qualunque forza ci venga data».
Ciò è riconducibile a quello che Jones Manoel chiama il «feticcio della sconfitta» della sinistra occidentale, ovvero il fenomeno per cui essa si trova ad essere predisposta verso situazioni «di oppressione, sofferenza, martirio» invece che verso atti riusciti di resistenza e rivoluzione. Manoel continua:
«Le persone rimangono estasiate guardando le immagini (non propriamente fantastiche) di un bambino o adolescente [palestinese] che usa una fionda per lanciare un sasso contro un carro armato. Si tratta di un chiaro esempio di eroismo, ma anche di un simbolo di barbarie. È un popolo che non ha la capacità di difendersi di fronte una potenza coloniale, imperialista, armata fino ai denti. Non hanno la stessa capacità di resistenza; è questo che viene romanzato».
Di conseguenza, ampie fasce della sinistra occidentale esprimono solidarietà alla causa palestinese in modo astratto, sopravvalutando l’importanza del proprio ruolo e rigettando gli stessi gruppi che si battono, e muoiono, per tale causa. Troppo spesso, coloro che non si sono voluti arrendere e hanno resistito, pagando un prezzo molto caro, vengono condannati da quelli che si dichiarano loro alleati. Similmente, è molto diffuso un moto di demonizzazione – laddove non c’è ignoranza – verso le forze esterne che aiutano materialmente la resistenza palestinese, in particolare verso l’Iran. Se tale assistenza viene riconosciuta (il che è raro), i gruppi palestinesi che la accettano vengono tipicamente infantilizzati, relegati allo status di «impostori» o addirittura «pedine» che si fanno sfruttare per portare a compimento fini altrui; un posizionamento che si pone in contraddizione rispetto a quanto dichiarato dai leader palestinesi.
Una critica solitamente indirizzata verso Hamas è relativa al lancio dei missili da Gaza che raggiungono indiscriminatamente obiettivi militari e civili. Le operazioni missilistiche di Hamas si configurano, secondo Human Rights Watch e Amnesty International come «crimini di guerra». Perugini e Gordon fanno notare la base fallace su cui si innesta questa designazione: «l’uso dei missili fatti in casa – non c’è molto altro a disposizione delle persone che vivono sotto assedio permanente – è un crimine di guerra». Vale a dire, i gruppi armati palestinesi sono criminalizzati per la loro inferiorità tecnologica. Dopo l’ultima tornata di combattimenti nel maggio del 2021, al-Sinwar ha affermato che, a differenza di Israele, «che possiede un arsenale completo di armi, attrezzature e aerei all’avanguardia» e nonostante ciò «bombarda i nostri bambini e le nostre donne di proposito», se Hamas avesse posseduto «la capacità di lanciare missili di precisione contro obiettivi militari, non avremmo usato i razzi che abbiamo utilizzato. Siamo costretti a difendere il nostro popolo con ciò che abbiamo; questo è quanto abbiamo».
La mancanza di sostegno per la lotta armata è parte di un problema più ampio e legato al modo in cui la causa palestinese viene inquadrata in Occidente, così da oscurarne la sua natura. La Palestina non è semplicemente una questione di diritti umani, e neanche solo una questione di apartheid. Si tratta, invece, di una lotta anticoloniale per la liberazione nazionale condotta da una resistenza indigena contro una forza coloniale sostenuta dall’imperialismo. Decolonizzazione è una parola oggi usata frequentemente in Occidente in senso astratto o in relazione a programmi di studio, istituzioni, arte; più raramente viene impiegata in relazione a ciò per cui è più significativa: i territori. Questo è il nocciolo della questione: la Palestina deve essere decolonizzata, i colonizzatori sionisti deposti, le loro strutture razziste e le barriere – fisiche e politiche – che impongono sui palestinesi devono essere smantellate; tutti i rifugiati palestinesi devono avere riconosciuto il proprio diritto al ritorno.
Va sottolineato il fatto che sostenere il diritto palestinese a condurre una lotta armata per la propria liberazione non implica invocare violenza, né una sua feticizzazione o celebrazione inutile. Tantomeno significa che gli sforzi non violenti, come il movimento Boycott, Divestments and Sactions (BDS), siano di scarsa rilevanza. Piuttosto, il movimento BDS dovrebbe essere considerato parte integrante di un ampio spettro di attività di resistenza, di cui la lotta armata è una delle componenti. Samah Idriss, membro fondatore della Campagna per il boicottaggio dei sostenitori di Israele in Libano, ha affermato: «entrambe le forme di resistenza, civile e armata, sono complementari e non dovrebbero essere viste come reciprocamente escludenti». Khaled Barakat ha sottolineato: «Israele e i suoi alleati non hanno mai accettato alcuna forma di resistenza palestinese. Le campagne di boicottaggio e l’organizzazione popolare non sono alternative alla resistenza armata, ma tattiche di lotta interdipendenti».
L'analisi di Nelson Mandela è significativa in questo contesto: «la resistenza passiva e non violenta è efficace finché l’opposizione aderisce a queste stesse regole; nel momento in cui la protesta pacifica incontra la violenza, la sua efficacia giunge al termine». Per Mandela, «la non violenza non è un principio morale ma una strategia» in quanto «non c’è maggiore moralità nell’usare un’arma inefficace». Chiarendo la logica secondo cui il Congresso africano nazionale (ANC) ha adottato la resistenza armata, Mandela spiega che non esistono altre alternative: «numerose volte abbiamo utilizzato tutte le armi non violente parte del nostro arsenale: discorsi, deposizioni, minacce, marce, scioperi, allontanamenti, incarcerazioni volontarie – tutto inutile, perché qualunque cosa abbiamo fatto è stata ricambiata con un pugno di ferro». Questo punto di vista si riflette nelle parole di al-Sinwar che fanno riferimento alle proteste della Grande Marcia del Ritorno del 2018-2019 durante le quali i cecchini israeliani uccisero centinaia di manifestanti di Gaza e ne ferirono gravemente migliaia. Al-Sinwar afferma: «abbiamo provato la strada della resistenza pacifica», ma invece di agire per fermare i massacri di Israele, «il mondo ha assistito mentre la macchina da guerra dell’occupazione uccideva i nostri giovani».
Il riferimento di Mandela all’efficacia è cruciale. Nonostante ciò che molti sostenitori occidentali vogliono lasciar intendere e nonostante il costo enorme che comporta, la resistenza armata palestinese a Gaza non è inutile e, anzi, continua a crescere in efficacia e capacità deterrente. Ciò era già evidente dopo il fallimento israeliano nel confronto militare del 2014 ed è stato nuovamente sottolineato dal recente successo della resistenza nel maggio del 2021; in quest’ultima occasione, la resistenza palestinese ha lanciato un numero senza precedenti di missili, in grado di raggiungere in profondità la Palestina storica. Nonostante il devastante bombardamento aereo di Gaza, Israele non è riuscito a fermare il lancio dei missili e, dopo le perdite del 2014, teme l’avvio di un’altra invasione terrestre sulla striscia – soprattutto perché ora la resistenza è attrezzata con un maggior numero di missili Kornet, precedentemente utilizzati con effetto letale contro i carri armati israeliani nel sud del Libano. Il cessate il fuoco dichiarato il 21 maggio è stato largamente percepito dagli israeliani come una sconfitta, mentre i palestinesi celebravano la vittoria. L’equilibrio militare è cambiato. Sebbene Israele resti più potente sotto ogni aspetto, la resistenza è in una posizione più forte ora di quanto non lo sia stata per anni. Ha costruito tale forza a partire dai successi di Hezbollah contro Israele nel 2000 e nel 2006. Grazie all’addestramento e l’aiuto del gruppo libanese e di altri membri dell’Asse della Resistenza, ha accresciuto le sue capacità. Questo cambiamento si riflette nel fatto che dal 2014 le vendite di armi israeliane sono stagnanti e le sue aggressioni contro Gaza non risultano in un immediato aumento del costo delle azioni delle società israeliane produttrici di armi (armi utilizzate su Gaza come fosse un palcoscenico per la messinscena delle nuove tecnologie militari). Shir Hever ha fatto notare che dopo i fallimenti sopracitati, i clienti di Israele nel commercio di armi hanno cominciato a dubitare dello scopo di tali sofisticate tecnologie: «Se non riescono a quietare i palestinesi con questi missili, perché dovremmo comprarli?».
Oltre al descritto impatto a livello pratico, la lotta armata ha un notevole ruolo propagandistico. La realtà dei fatti è che la Palestina non avrebbe dominato i titoli dei giornali del mondo nel maggio 2021 se non fosse stato per la resistenza di Gaza che, contrariamente all’attenzione su Hamas da parte dei media occidentali, si compone di varie forze tra cui la Jihad islamica palestinese (PIJ) e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), di stampo marxista-leninista. Il FPLP è esemplare in quanto le sue azioni tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, principalmente dirottamenti aerei (in cui i passeggeri furono rilasciati illesi), instillarono la causa palestinese nella coscienza di milioni di persone per la prima volta. In effetti, lo scrittore palestinese nonché portavoce del FPLP, Ghassan Kanafani, credeva che la lotta armata costituisse la «migliore forma di propaganda» e che, nonostante il «gigantesco sistema propagandistico statunitense», è grazie alla lotta armata condotta dalle persone che avvengono le svolte decisive.
Nel 1970, dopo che il regime sostenuto dall’Occidente in Giordania aveva bombardato i campi profughi palestinesi del paese, il FPLP, sotto la guida del compagno e reclutatore di Kanafani, George Habash, prese in ostaggio un gruppo di cittadini provenienti da Stati Uniti, Germania dell’ovest e Gran Bretagna (principali sostenitori di Israele), e li trattenne in un due hotel di Amman. In cambio del loro rilascio, il FPLP richiese «la cessazione di tutti i bombardamenti dei campi profughi e la soddisfazione delle richieste del movimento di resistenza palestinese». Poco prima dell’effettivo rilascio, Habash si rivolse agli ostaggi in tono di scusa, dicendogli:
«Sento che è mio dovere spiegarvi perché abbiamo agito in questo modo. Naturalmente, da un punto di vista liberale, mi dispiace per quello che é successo e mi dispiace che vi abbiamo causato dei problemi negli ultimi due o tre giorni. A parte questo, spero che capirete o che almeno proverete a capire il perché di ciò che abbiamo fatto.
Suppongo che vi sarà difficile comprendere il nostro punto di vista. Il modo di pensare delle persone è influenzato dalle circostanze in cui vivono. Per questo, non possiamo vedere le cose allo stesso modo. Per noi, il popolo palestinese, le condizioni in cui viviamo da un buon numero di anni hanno modellato il nostro modo di pensare. Non ci possiamo fare nulla. Questo modo di pensare può essere compreso solo a partire dalla conoscenza di un fatto molto semplice: noi palestinesi… negli ultimi ventidue anni abbiamo vissuto in campi e tende. Siamo stati cacciati dal nostro paese, dalle nostre case e dalle nostre terre, cacciati come pecore e lasciati qui nei campi profughi in condizioni assolutamente disumane.
Per ventidue anni il nostro popolo ha aspettato di poter ristabilire i propri diritti, ma ciò non è accaduto. Dopo ventidue anni di ingiustizia, disumanità, di vita nei campi profughi senza che nessuno si curasse di noi, riteniamo di avere il pieno diritto di difendere la nostra rivoluzione. Abbiamo, in tutti i sensi, diritto a proteggere la nostra rivoluzione.
Non ci alziamo la mattina con la possibilità di bere una tazza di latte e Nescafè, di passare mezz’ora davanti allo specchio pensando al nostro prossimo viaggio in Svizzera, o progettando di passare un mese in un paese o nell’altro. Viviamo ogni giorno nei campi profughi. Non possiamo avere la calma che avete voi. Non possiamo pensare allo stesso modo vostro. Abbiamo vissuto in queste circostanze non per un giorno, né per due o tre. Non per una settimana, due settimane, tre settimane. Non per un anno, non per due, ma per ben ventidue anni. Se qualcuno di voi dovesse venire a stare in questi campi profughi anche solo per una o due settimane ne risentirebbe profondamente.
Perdonate il mio inglese. Personalmente, lasciate che io vi chieda scusa. Mi dispiace di avervi causato problemi in questi pochi giorni. Ma da un punto di vista rivoluzionario, continueremo a ritenere di avere pieno diritto di fare quanto abbiamo fatto».
Le parole di Habash devono essere ascoltate con attenzione. L’urgenza sottolineata nel suo messaggio è ancora più impellente mezzo secolo dopo, poiché i palestinesi – che continuano a rifiutare il vittimismo passivo – vivono in queste miserabili condizioni descritte da Habash da settantatré lunghi anni, non ventidue.
La rivoluzione, come osservò Mao Zedong, «non è come preparare una cena, scrivere un saggio, dipingere un quadro o ricamare; non è un processo così raffinato, piacevole, gentile». Lo stesso vale per la decolonizzazione: sebbene le lotte del passato abbiano assunto molteplici caratteristiche, la resistenza armata è sempre stata contemplata come parte integrante del processo. La Palestina non è un’eccezione. Oltre l’appoggio al movimento BDS e altre campagne promosse dalla società civile, il diritto inattaccabile dei palestinesi a portare avanti la lotta armata deve essere sostenuto da coloro che scelgono di essere solidali con questo popolo e la sua causa.
Louis Allday è uno scrittore e uno storico di Londra. Ha fondato Liberated Texts.
Risorse:
🔺 Palestine Remix di Al Jazeera: una programmazione di documentari sulla questione palestinese, sulle sue origini e su alcuni dei suoi momenti chiave (la dichiarazione di Balfour, la Nakba, Oslo, ecc.).
🔺 L’insieme di scritti «Solidarity with Palestine» di Verso Books che comprende cinque ebooks, un podcast e alcuni articoli dal blog di Verso. Tra i testi figura anche «Dieci miti su Israele» dello storico israeliano Ilan Pappé, il cui ebook italiano è gratuitamente scaricabile dal sito di Tamu edizioni, qui.
🔺 Questa docu-intervista al pensatore decoloniale e accademico palestinese Edward Said.
🔺 Il sito di BDS Italia per sostenere il popolo palestinese tramite azioni di boicottaggio, disinvestimento e l’implementazione di sanzioni economiche contro lo stato israeliano. La campagna nasce nei primi anni 2000 e ha carattere globale.
🔺 Galleria digitalizzata di opere d’arte sulla Palestina, a cura della Contemporary Art Platform e ospitata da Google Arts & Culture.