Cosa guardare:
Nel 2008, l’artista femminista italiana Pippa Bacca intraprese un viaggio in autostop da Milano a Gerusalemme vestita da sposa, assieme a una sua amica-collega. L’intento del gesto simbolico era di promuovere un messaggio di pace. Le due, giunte in Turchia, si separarono. Pippa scomparve e, dopo pochi giorni, il suo corpo fu ritrovato a Gebze, una località poco distante da Istanbul. Nel film My Letter to Pippa, la regista Bingol Elmas, indossando un abito da sposa nero, riprende il viaggio di Pippa a partire da dove si persero le sue tracce. Durante il percorso, Elmas incontra ragazze, donne, bambini e uomini e, assieme a loro, affronta tematiche di violenza di genere, machismo e riflette sull’esperienza di Pippa. Il film è disponibile per intero su YouTube:
Hands Tied è il titolo della nuova programmazione di Another Gaze Journal sulla piattaforma streaming gratuita Another Screen che include due film sulle mani: Palmistry di Maria Lassnig e A Rough History (of the destruction of fingerprints) di Ayesha Hameed. I film, a partire dalle mani, affrontano argomenti come genere, sessualità, identità, migrazioni e confini. Sono inoltre accompagnati dalla trascrizione di una tavola rotonda in cui sono discussi entrambi i cortometraggi. Da domenica 4 aprile, allo stesso link è disponibile anche una nuova programmazione: Eating / The Other, che include sei film femministi riguardo il cibo e l’atto di mangiare in relazione a una serie di tematiche differenti. Le programmazioni sono online per un periodo di tempo limitato. Tutti i film sono disponibili con sottotitoli in italiano.
Cosa leggere:
Laboratorio Favela: Violenza e politica a Rio de Janeiro. Testi e discorsi di Marielle Franco di Tamu Edizioni. Laboratorio Favela porta in Italia il lavoro di Marielle Franco, politica, attivista femminista e socialista che si è esposta per i diritti di coloro che sono meno tutelati nella società brasiliana. Il libro esce nel terzo anniversario del suo assassinio e raccoglie i suoi testi e discorsi, assieme ad altri contributi che approfondiscono il suo lavoro. I ricavati dalla pubblicazione saranno devoluti alla famiglia di Marielle. Il testo può essere acquistato tramite il sito della casa editrice qui.
Questo articolo di Jennifer Guerra riguardo il caso di Sarah Everard, la giovane donna che è stata uccisa a sud di Londra da un agente della Metropolitan Police. L’articolo osserva come le istituzioni statali - e quindi le forze dell’ordine - sono parte integrante del sistema che opprime le donne:
È plausibile che il governo [nel votare future riforme sulla sicurezza/violenza di genere] userà il caso di Sarah Everard come occasione per ribadire il giustizialismo e il ruolo delle forze dell’ordine nel contrasto alla violenza di genere. Ma come dimostra tutta questa vicenda, come è stata gestita e anche solo dalle parole che sono state spese dalle autorità per parlarne, è evidente che la risposta alla violenza non può risiedere nella polizia, anche se rappresentata da una donna.
L’articolo menziona #ReclaimTheseStreets come organizzatore della veglia/protesta tenutasi per Sarah Everard il giorno 13 marzo. In realtà, è doveroso notare che #RTS è stato solo marginalmente coinvolto nella protesta. Il collettivo Sisters Uncut ha gestito la veglia e si è occupato di organizzare le proteste avvenute a Parliament Square nei giorni seguenti. Grazie all’azione diretta e collettiva organizzata da Sisters Uncut, l’introduzione della riforma Policing, Crime, Sentencing and Courts Bill - che costituisce una seria minaccia alla libertà dei cittadini britannici e al loro diritto di protestare - è stata rinviata. Più dettagli su Sisters Uncut qui. Inoltre, le proteste organizzate da Sisters Uncut tramite l’hashtag #KillTheBill hanno causato una serie di mobilitazioni in tutto il Regno Unito che stanno continuando in questi giorni.
Vulnerabilità
Tra Judith Butler e Elena Ferrante
“Se fossimo fatti solo di due metà, la vita individuale sarebbe semplice, ma l’io è una folla, gli si agitano dentro una gran quantità di frammenti eterogenei. E specialmente l’io femminile, con la sua lunghissima storia di oppressione e repressione, tende, rivoltandosi, a frantumarsi e ricomporsi e ancora frantumarsi in modo sempre imprevisto”.
- Elena Ferrante, La frantumaglia
Gli studi femministi hanno dato tanto spazio al concetto di vulnerabilità in quanto caratteristica storicamente associata alla femminilità. La fragilità delle donne è, infatti, uno stereotipo ricorrente e che ha attraversato diverse discipline, dalla letteratura alle scienze mediche. La donna come damigella in pericolo, come principessa la cui vita è scandita dal suo interminabile attendere l’arrivo di un principe che la salvi, è una formula fin troppo nota. Questa formulazione della donna come l’essere vulnerabile per eccellenza, soggetta alla forza maschile, fa parte dell’immaginario patriarcale. Solitamente, la delicatezza è attribuita come caratteristica alla donna borghese e bianca. Tuttavia, questo modo di concettualizzare la femminilità non si esaurisce qui. Basti pensare, ad esempio, al modo in cui si parla de “la donna musulmana” in termini vittimizzanti, come una eterna succube, soggiogata dal patriarcato, che noi – noi cittadini “civilizzati” – dobbiamo incaricarci di salvare. Questo tipo di discorsi intende la vulnerabilità come condizione ontologica di determinati gruppi sociali – in questa occasione è d’interesse il caso delle donne, ma simili narrazioni sono applicate anche ad altri gruppi, come ad esempio i migranti – che non hanno potere d’agire autonomo e quindi necessitano di protezione. Le donne, secondo questa logica, sono a tutti gli effetti infantilizzate, percepite come esseri di natura fondamentalmente passiva, a cui è posta in contrasto l’essenza vitale attiva dell’uomo. Le donne non possono fare questa o quella cosa perché non sono in grado, troppo plagiate dalla loro fragile instabilità, vulnerabilità fisica ed emotiva. Di contro, l’uomo emerge da questa narrazione come l’essere invulnerabile per eccellenza, colui che da solo è in grado di fare e disfare; la donna, se è fortunata, può stare a guardare. Spesso, movimenti femministi si sono scagliati contro questa dicotomia rigidamente imposta. Tuttavia, non sempre sono stati in grado di abbattere l’idea che il paternalismo e la forza mascolinizzata siano gli unici esempi validi di agency. Secondo la filosofa statunitense Judith Butler, è necessario ripensare la vulnerabilità al di fuori di questi schemi preesistenti.
Nel teorizzare una nuova vulnerabilità radicale, Butler parte dal corpo e dalla sua feribilità. Il termine “vulnerabilità” deriva dal latino vulnerāre (ferire), vulnus (ferita) e la sua definizione letterale è: “che può essere ferito” (cf. Sabsay, 2016). Il corpo, in quanto entità permeabile, è un soggetto feribile. La sua feribilità non è ricercata, ma connaturata all’esperienza stessa dell’esistenza corporea. La possibilità di essere feriti, di provare dolore, e la coscienza della nostra mortalità sono direttamente discendenti dal fatto che abitiamo un corpo. Allo stesso tempo, il fatto che la nostra dimensione corporea sia legata a corpi esterni che possono ferirci – o proteggerci – mette in evidenza il fatto che il corpo è un fenomeno sociale. Nelle parole di Butler (2004): “One insight that injury affords is that there are others out there on whom my life depends, people I do not know and may never know. This fundamental dependency on anonymous others is not a condition that I can will away”[i]. In altre parole, in quanto essere corporei siamo feribili ma soprattutto siamo interconnessi e interdipendenti, siamo relazionali. Il nostro corpo non ci appartiene mai completamente, ma è socialmente costituito: abitare un corpo significa necessariamente essere esposti alla percezione altrui e, talvolta, alla violenza altrui. Allo stesso tempo, la preservazione di tale corpo è ugualmente dipendente dagli altri corpi (umani e non) che ci circondano: per sopravvivere abbiamo tutti bisogno di essere inseriti in una rete di sostegno sociale. Nel fatto di essere così ingarbugliati in una incancellabile relazione con ciò che è altro da noi, che è vitale per la nostra sopravvivenza ma allo stesso tempo la minaccia, siamo esseri vulnerabili.
In uno dei suoi lavori più recenti, Vulnerability in Resistance, Butler, assieme a Zeynep Gambetti e Leticia Sabsay, ha continuato a espandere a riarticolare il suo pensiero sulla vulnerabilità. Stabilito che siamo tutti vulnerabili non in quanto deboli, ma in quanto esseri relazionali, è importante notare che è proprio questa nostra interdipendenza – il fatto che siamo costantemente “acted on and acting”[ii] (Butler, 2016) – a determinare le nostre azioni. In altre parole, ciò che Butler intende è che non esiste agency al di fuori della nostra relazionalità. Siamo esseri socialmente costituiti, le nostre soggettività sono costantemente in relazione con quanto – e chi – ci circonda e le nostre azioni, il nostro potere d’agire, non esistono in assenza di tutto ciò con cui necessariamente instauriamo un continuo dialogo. Questa idea della vulnerabilità mette in crisi le categorizzazioni binarie che identificano determinati gruppi come intrinsecamente fragili e quindi incapaci d’agire. Andando contro l’idea di attività/passività, Butler ci spiega che la nostra agency è parte integrante della nostra vulnerabilità.
Oltre a porre le basi per una politica di alleanze e solidarietà, l’idea di vulnerabilità così concepita da Butler può essere di sostegno al nostro modo di narrare, rappresentare e interpretare le figure femminili, slegandole dalla loro condizione di eterna passività. La tetralogia de L’amica geniale di Elena Ferrante è un ottimo esempio di questo tipo. Il racconto narra di un rapporto di amicizia lungo una vita tra le due protagoniste, Lenù (Elena Greco) e Lila (Raffaella Cerullo), a partire dalla loro infanzia nella Napoli degli anni ’50 fino ad arrivare ai primi anni 2000. La storia è narrata dalla voce di Lenù che – dopo aver scoperto che Lila, ormai anziana, ha deciso di sparire senza lasciare traccia di sé – decide di raccontare gli avvenimenti della loro vita, provando a tenere con sé un po’ della sua amica scomparsa. Superficialmente, le due amiche possono sembrare opposte l’una all’altra: Lila con la sua passione e intraprendenza, in grado di colpire chiunque si trovi di fronte a lei, Lenù con il suo ordine metodico, la sua pacatezza e riservatezza. Attraverso gli occhi di Lenù, Lila appare da sempre come un uragano in grado di trainare gli altri dietro di sé:
“[…] io [Lenù] cieca, lei [Lila] un falco: io con la pupilla opaca, lei che da sempre stringeva gli occhi saettando sguardi che vedevano di più; io attaccata al suo braccio, tra le ombre, lei che mi guidava con uno sguardo rigoroso” (Ferrante, 2011).
In molti momenti del racconto Lenù mette a tacere le proprie emozioni e modella le sue passioni sulla base del fervore che queste suscitano nella sua amica. Per esempio, quando Lila è costretta ad abbandonare la scuola – luogo in cui le due avevano intrapreso una competizione reciprocamente stimolante –, Lenù si sente persa, svogliata. Spesso, Lenù si mostra insofferente rispetto alla sua “costituzione inadatta” (Ferrante, 2012), così terrorizzata di sbagliare e umiliarsi che rinuncia a tuffarsi nelle cose con tutta se stessa, come invece sembra fare Lila:
“Non sapevo farmi trascinare oltre i limiti. […] Restavo indietro, in attesa. Lei [Lila] invece si prendeva le cose, le voleva davvero, se ne appassionava, giocava al tutto o niente, e non temeva il disprezzo, lo scherno, gli sputi, le mazzate” (ibid.).
Apparentemente, seguendo la storia dal punto di vista di Lenù, viene alla luce un dualismo che oppone le due amiche in cui Lila è quella che agisce mentre Lenù sta a guardare, ricalcando gli schemi binari di attività/passività prima descritti. Tuttavia, nonostante le insicurezze di Lenù che permeano la narrazione, è importante notare come la relazione tra le due non si esaurisce in termini di opposizionalità. Le due amiche non sono due poli opposti che non si toccano; al contrario, è proprio la loro relazionalità a venire fuori come vera protagonista del racconto. Come ha fatto notare Isabella Pinto (2020), l’intento di Ferrante è di “raccontare le porzioni di realtà in cui la figura maschile non è posta al centro della vicenda – e per cui le figure femminili diventerebbero elementi che si misurano su di lui”. È necessario, dunque, nel leggere Ferrante, liberarsi delle categorizzazioni che riassumono la realtà semplificandola. Il fulcro del racconto è il territorio inesplorato dell’amicizia femminile, raccontato da un punto di vista femminile su cui le etichette patriarcali, che hanno storicamente ingabbiato la donna dentro una forma per lei costruita in subordinazione al dominio maschile, non hanno veramente presa.
Il rapporto tra Lila e Lenù è così intenso che le due si perdono costantemente l’una nell’altra, con ammirazione, invidia, amore, perdendo i propri contorni di individuo e formandosi insieme, in relazione. La loro amicizia è il legame più saldo e affiatato di tutto il racconto, tanto che le tracce che si lasciano impresse a vicenda sono evidentissime. Lenù si pronuncia spesso su questi loro scambi, affermando che nel crescere insieme sono state “una in due, due in una, lei e io in continuità, formate, sformate, riformate” (Ferrante, 2012). E ancora, riflettendo:
“[..] la sua vita [di Lila] si affaccia di continuo nella mia, nelle parole che ho pronunciato, dentro le quali c’è spesso un’eco delle sue, in quel gesto determinato che è un riadattamento del suo gesto, in quel mio di meno che è tale per un suo di più, in quel mio di più che è la forzatura di un suo di meno” (ibid.).
Lenù si allontana da Lila in alcuni momenti del racconto, presa dallo studio o in seguito a momenti di particolare tensione. Ma anche quando le due sono lontane, la presenza di Lila sembra ingombrante, uno spettro che continua a manifestarsi a, e in, Lenù. Quest’ultima, nonostante gli screzi, ritorna sempre a desiderare di riunirsi con l’amica, tanto che lo stesso racconto della loro storia ha come obiettivo quello di tirare dentro la sua vita Lila per un’ultima volta, dopo la sua scomparsa: “Voglio che lei [Lila] ci sia, scrivo per questo. Voglio che cancelli, che aggiunga, che collabori alla nostra storia rovesciandoci dentro, secondo il suo estro, le cose che sa, che ha detto o che ha pensato” (Ferrante, 2013). Lenù continua spessissimo a richiamare a sé la memoria dell’amica arrivando a immaginare di condividere con lei anche gli studi:
“[…] che cosa sarebbe stata la mia vita e quella di Lila se avessimo fatto entrambe l’esame di ammissione alla scuola media e poi il liceo e poi tutti gli studi fino alla laurea, gomito a gomito, affiatate, una coppia perfetta che somma energie intellettuali, piaceri della comprensione e dell’immaginazione. Avremmo scritto insieme, avremmo firmato insieme, avremmo tratto potenza l’una dall’altra, ci saremmo battute spalla a spalla perché ciò che era nostro fosse inimitabilmente nostro. È un dispiacere la solitudine femminile delle teste, mi dicevo, è uno sciupio questo tagliarsi via l’una dall’altra, senza protocolli, senza tradizione” (ibid.).
Tutto ruota attorno all’amicizia tra Lila e Lenù; il rione dove sono nate e cresciute e i suoi abitanti, la separazione dei loro percorsi di vita, l’incontro con nuovi luoghi e nuove persone, tutto lascia in loro delle tracce profonde, ma è la relazione tra le due a percorrere l’arco intero delle loro vite: “L’amica geniale è un racconto concepito in modo che il rapporto più intenso, più duraturo, più felice e più devastante risulti essere quello tra Lila e Lena. Quel rapporto dura, mentre i rapporti con gli uomini nascono, crescono e deperiscono” (Ferrante, 2016).
La conflittualità che talvolta si presenta nel rapporto tra le due protagoniste del racconto – sotto forma di invidia, rivalità, senso di subalternità più esplicito da parte di Lenù ma che emerge anche da parte di Lila in alcuni momenti – è anti-dialettica (cf. Pinto, 2020). Le loro soggettività non sono opposizionali né predefinite; sono invece relazionali e in continua formazione. In altre parole, più che in termini di opposizione, la relazione tra Lila è Lenù è meglio intesa in termini di differenza: i due personaggi, seppur di temperamento diverso, non sono mai l’esatto opposto l’una dell’altra (cf. Ferrante, 2016). Lila e Lenù non smettono mai di ricavare “forza l’una dall’altra. [..] non solo nel senso di aiutarsi, ma anche nel senso di saccheggiarsi, rubarsi sentimento e intelligenza, levarsi reciprocamente energia” (ibid.). Ed è proprio in questa interconnessione, in questo continuo scambio, che le due si muovono nella vita urtandosi, lasciandosi a vicenda impronte indelebili. Quando Lila, alla fine del racconto, scompare definitivamente – si scancella, come desiderava fare da tempo –, lascia l’unico pezzo tangibile di sé a Lenù: le due bambole che avevano perso nello scantinato quando erano ancora bambine.
In questo senso, il racconto di Ferrante è un esempio perfetto di vulnerabilità intesa così come l’ha concettualizzata Butler: un abbandono dell’idea mascolinizzata di indipendenza e di autosufficienza che mette, invece, in risalto il modo in cui siamo tutti profondamente interconnessi, il modo in cui ci costruiamo a vicenda l’uno con l’altro e le nostre azioni, le nostre passioni che non sono mai veramente vissute in isolamento. Come ha sottolineato Ferrante (2016):
“Gli altri [..] ci urtano di continuo e noi facciamo lo stesso con loro. La nostra singolarità, la nostra unicità, la nostra identità si crepano senza sosta. Quando alla fine di una giornata esclamiamo: mi sento a pezzi, non c’è niente di più letteralmente vero. A guardar bene, siamo le spinte destabilizzanti che subiamo o che diamo, e la storia di quelle spinte è la nostra vera storia. Raccontarla significa raccontare compenetrazioni, un subbuglio, anche, tecnicamente, una commistione incongrua di registri espressivi, di codici e di generi. Siamo frammenti eterogenei che, grazie a effetti di compattezza – le figure eleganti, la bella forma – stanno insieme malgrado la loro casualità e contraddittorietà”.
L’intersoggettività di Ferrante fa quindi eco alla critica femminista di Butler. Nel raccontare la storia di un’amicizia tra due bambine/ragazze/donne, Ferrante effettivamente si sporge “oltre il genere femminile, oltre l’immagine, cioè, che ci hanno cucito addosso gli uomini e che le donne si attribuiscono come se fosse la loro vera natura” (ibid.). Così, Ferrante costruisce un nuovo femminile, inesplorato e non raccontato, che sfugge all’idea della donna fragile, della donna come (s)oggetto passivo e priva di agency:
“Le mie donne sono forti, colte, consapevoli di sé e dei loro diritti, giuste, ma, contemporaneamente, esposte a cedimenti improvvisi, a subalternità di ogni tipo, a cattivi sentimenti” (ibid.).
La forza delle donne di Ferrante non è una negazione della vulnerabilità umana. Al contrario, Lila e Lenù sono estremamente vulnerabili in quanto soggetti relazionali. E nel loro essere relazionali, Lila e Lenù sono esempi di una vulnerabilità – e di una femminilità – non convenzionale. Subendo gli urti del mondo circostante, sono in continua metamorfosi; costantemente, nel corso del racconto, si scontrano con i limiti della realtà e li confrontano. Lila, in particolare, “è quel tipo di persona che non riesce ad accettare confini se non per violarli” (ibid.). Nel farlo, prova talvolta un senso di smarrimento che lei chiama smarginatura, in cui è “ tutto uno sciogliersi di materie eterogenee, un confondersi e rimescolarsi” (Ferrante, 2014). L’io di Lila vive sotto la costante minaccia di smarginarsi, di frantumarsi in mille pezzi e mischiarsi con tutto il resto. Anche Lenù vive questo scontrarsi con i contorni del reale, ma si frammenta con più serenità, con l’ordine e l’autodisciplina che la caratterizzano, scomponendosi in pezzi ben determinati: la “donna libera”, la “donna madre”, la “donna-amante”, la “vaiassa inferocita” (ibid.). In questo modo, Ferrante rappresenta due soggettività femminili che formandosi e sformandosi, sono in continuo divenire; in un dialogo costante con gli ambienti e le persone della loro vita, che agiscono su di loro e contemporaneamente costituiscono il nutrimento del loro agire, come direbbe Butler. E, in maniera ancora più rivoluzionaria, Ferrante rende questa relazionalità evidente soprattutto nel rapporto tra le due amiche: il loro essere una in due, due in una per tutta la vita, mentre gli uomini vanno e vengono, è significativo in quanto rifiuta l’androcentrismo delle culture patriarcali. Le donne di Ferrante sono forti, sono imperfette, ma soprattutto sono radicalmente vulnerabili, in maniere in cui i miti della donna prodotti dal patriarcato smettono di avere senso e danno spazio a nuove formazioni e interpretazioni del femminile.
[i] “Un’intuizione che offre la ferita è che ci sono altri da cui la nostra vita dipende; persone che non conosciamo e che forse non conosceremo mai. Questa fondamentale dipendenza da altri che restano a noi anonimi non è una condizione che possiamo cacciare via con la nostra forza di volontà”.
[ii] “Siamo ‘agiti’ e agiamo” – subiamo gli impatti di ciò che si muove attorno a noi mentre noi stessi ci muoviamo di rimando.
Lavori citati:
J. Butler. 2004. Precarious Life: The Power of Mourning and Violence, Verso Books.
— 2009. Frames of War: When is Life Grievable?, Verso Books.
— Zeynep Gambetti, Leticia Sabsay. 2016. Vulnerability in Resistance, Duke University Press.
E. Ferrante. 2011. L’amica geniale, Edizioni e/o.
— 2012. Storia del nuovo cognome, Edizioni e/o.
— 2013. Storia di chi fugge e di chi resta, Edizioni e/o.
— 2014. Storia della bambina perduta, Edizioni e/o.
— 2016. La frantumaglia, Edizioni e/o.
I. Pinto. 2020. Elena Ferrante: Poetiche e Politiche della Soggettività, Mimesis Edizioni.